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Massimiliano Gatti

exibart | It’s a Mad, Mad, Mad, Mad World #23.

20/4/2021

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It’s a Mad, Mad, Mad, Mad World #23.
​Intervista a Massimiliano Gatti

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L'atlante della fotografia degli anni 2020 di #ItsaMadMadMadMadWorld, a cura di exibart e Milano Art Guide, torna con una intervista a Massimiliano Gatti.
Milano Art Guide ed exibart presentano It’s a Mad, Mad, Mad, Mad World, un atlante della fotografia degli anni 2020, da scoprire ogni settimana su Instagram: l’ospite di questa settimana è Massimiliano Gatti. Per dare un’occhiata al takeover nelle stories del nostro account instagram, vi basta cliccare qui.

A cosa stai lavorando?
«In questo momento, sto lavorando su un archivio di stereofotografie conservate al California Museum of Photography di Riverside (CA). Si tratta di immagini di inizio novecento che ritraggono il Medio Oriente. La mia osservazione si focalizza sull’atteggiamento di rappresentazione di quei luoghi, sul processo di creazione di uno stereotipo e su quello sguardo che potrei definire dall’alto. Una prospettiva che Edward Said ha definito nel suo saggio Orientalism come una strategia dell’Occidente per esercitare la propria influenza e il proprio controllo sull’Oriente e che diventa un’impalcatura culturale per giustificare l’egemonia coloniale su quei territori.
Nel frattempo, sto preparando una mostra Not only history, but our memories, curata da Carlo Sala negli spazi della galleria Podbielski Contemporary, a Milano. La mostra, che raccoglie lavori anche di altri artisti tra cui Silvia Bigi, Marina Caneve, Federico Clavarino, Francesca Catastini, Giulia Parlato e Jacopo Valentini, intende indagare il rapporto tra la memoria personale e la storia. In quest’occasione presento il mio lavoro Le nuvole, una serie di dittici in cui si affiancano le immagini che ho scattato a Palmira e degli still frame di video di propaganda dell’ISIS che ritraggono le nuvole di polvere delle esplosioni che hanno devastato l’antica città siriana. In questo progetto la mia esperienza personale e i miei ricordi si mescolano alla storia di distruzione e negazione che è passata da Palmira e dalla Siria.»

Come trovi ispirazione per il tuo lavoro? E cosa ti ispira di più?
«Sono molto interessato alla storia, da un lato e dall’altro a tutti i meccanismi sociali e culturali della nostra epoca. Io ho lavorato per anni in Medio Oriente, dalla Siria all’Iraq e anche da lontano, rifletto, con il mio lavoro, sulla realtà di quella terra che ha millenni di storia alle spalle e un presente difficile di tensioni e guerre. Devo dire che la lettura è la mia principale fonte di ispirazione, recentemente ho letto Undici pianeti di Mahmoud Darwish e la sua visione del passato arabo della Spagna del sud, dove ho studiato, mi ha fatto mettere in discussione la mia percezione di quei luoghi e anche dei miei ricordi personali.»
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Cosa significa fotografare negli Anni Venti del Duemila?
«Fotografare negli Anni Venti del Duemila significa non avere a che fare necessariamente con la macchina fotografica. Io mi sono formato alla scuola Bauer di Milano, dove si è sempre data molta importanza alla tecnica oltre che al pensiero che sta dietro a ogni progetto fotografico. Ma adesso stiamo vivendo un’interessante stagione artistica in cui sta diventando centrale nella pratica, l’appropriazione di immagini che provengono da diversi devices, come se ci fosse un ritorno all’inconscio fotografico di Vaccari. Io stesso sto lavorando su archivio di immagini che non ho scattato, ma interpreto, a distanza di anni, con la mia prospettiva artistica.»
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Il 2020 in una foto?

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artslife | Da Silvia Bigi a Marina Caneve. Il filo della storia è tutto personale, la fotografia contemporanea italiana a Milano

7/4/2021

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di Eleonora Savorelli

NOT ONLY HISTORY, BUT OUR MEMORIES
 è il titolo della collettiva a cura di Carlo Sala che inaugurerà alla galleria Podbielski Contemporary di Milano non appena le norme sanitarie lo consentiranno. Esposte le opere di sette giovani fotografi italiani, le cui pratiche sono accomunate da un’indagine circa la storia contemporanea declinata in un presente personale e unico.Il filtro artistico attraverso cui i fotografi-artisti incedono è quello della commistione tra memoria individuale-familiare e collettiva, rendendo superfluo e impersonale ogni tipo di elemento storiografico o celebrativo. I fotografi sono: Silvia Bigi, Marina Caneve, Federico Clavarino, Francesca Catastini, Massimiliano Gatti, Giulia Parlato e Jacopo Valentini.

Jacopo Valentini (Modena, 1990) presenta la serie Vis Montium (2018-in corso): essa indaga la Pietra di Bismantova un viaggio nell’Appenino Tosco-Emiliano. Il carattere identitario del territorio è altamente presente e viene riconnesso da Valentini a simboli antichi. La rupe soggetto di alcune delle fotografie è legata all’epoca etrusca – durante cui la tradizione la vedeva come un’arca sacrificale – e alla Divina Commedia – Dante ambienta qui il quarto canto del Purgatorio.

Il progetto Are they Rocks or Clouds? (2015-2019) è di Marina Caneve (Belluno, 1988). Qui, Caneve analizza un altro territorio, quello delle Dolomiti, profondamente segnato dalla grande alluvione del 1966. Ragionando sulla crisi climatica di cui l’intero pianeta è testimone, la fotografa mostra ritratti e scorci di paesi che recano “cicatrici”, stimolando una riflessione circa la ciclicità delle catastrofi e la relazione dell’uomo con la natura.

Massimiliano Gatti (Voghera, 1981) propone la serie Le nuvole, risalente al 2019. Ambientata a Palmira, Le nuvole accosta alle fotografie dei siti archeologici, scattate durante diversi soggiorni in Siria, dei fermo immagine dei video propagandisti dell’ISIS. Le nuvole si rivelano essere colonne di fumo, risultato dei moti distruttivi che si prefiggono di distruggere ogni traccia del patrimonio storico legato alla zona.

Sempre legata al Medio Oriente è la serie Hereafter (2014-2019) di Federico Clavarino (Torino, 1984), esposta in collaborazione con galleria Viasaterna di Milano. Il punto di partenza del lavoro è la casa dei nonni materni in Inghilterra. Qui, Clavarino trova oggetti legati alle terre dell’Oman, della Giordania e del Sudan, dove i due hanno vissuto. Tale vicenda familiare è la spinta per studiare le sorti dell’Impero britannico e le tracce del passato colonia.

La famiglia è una presenza costante anche nel progetto From dust you came (and to dust you shall return) del 2019 di Silvia Bigi (Ravenna, 1985) – qui l’intervista su ArtsLife. Lavorando sul suo archivio, l’artista visiva ha “grattato” le immagini per ricavarne dei pigmenti che idealmente serviranno a creare nuove opere. All’interno della collettiva, Bigi è presente anche con Il sangue e il latte (2017), in cui i due elementi si fondono alla ricerca di una conciliazione tra dimensione femminile e maschile.

Le questioni di genere sono presenti anche in Petrus (2016-2019), serie di Francesca Catastini (Lucca, 1982). Realizza gli scatti nell’abitazione di una persona cara, dove si ritrovano i segni della concezione occidentale della mascolinità, fornendo una serie di archetipi che ormai abitano la nostra quotidianità.
La serie Diachronicles (2019-2020) di Giulia Parlato (Palermo, 1993) è un lavoro fotografico sospeso tra realtà e finzione. Diorami, teche museali, ipotetiche stratigrafie archeologiche presentano ipotetiche narrazioni che rendono chiara la potenza generativa di musei e archivi, che possono modellare la realtà e i saperi.
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Podbielski Contemporary 
Via Vincenzo Monti, 12, 20123 Milano MI
info@podbielskicontemporary.com

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espoarte | “ORE SOSPESE”: CRONACA INTIMA DI UN’ITALIA SENTIMENTALE

4/12/2020

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MILANO | PODBIELSKI CONTEMPORARY | 15 OTTOBRE – DICEMBRE 2020

Foto
di PIETRO BAZZOLI

Osservando i muri di marmo e i viali polverosi ritratti nelle fotografie sulle pareti della galleria Podbielski Contemporary di Milano non si può far a meno di avvertire una nota intima e stranianti insieme: sono visioni, scorci rubati di un Bel Paese difficile da riconoscere.
Forse si tratta di istantanee più propriamente riconducibili al ricordo del singolo, piuttosto che alla nazional popolare iconoclastia di un paese da cartolina. È, dunque, tale punto di osservazione particolareggiato che rende in modo assai più peculiare e interessante una realtà dai contorni intangibili, sfumati; luoghi dove, sebbene la singolarità prevalga sulla massa, si assiste a un’affermazione così forte della poetica da renderne universale il valore. Senza stupirsi se quello ritratto sia un luogo che si dovrebbe o potrebbe conoscere: è un’altra Italia, vissuta esclusivamente attraverso la lente della macchina fotografica. Un paese che si fa vettore di storia e di memoria, una sorta di contraltare rispetto ai non-luoghi definiti dall’antropologo francese Marc Augé, per cui “la vista delle rovine ci fa intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di resuscitare. È un tempo puro, non databile, assente dal nostro mondo d’immagini, di simulacri e di ricostruzioni”.
Un’Italia, dunque, non canonica bensì ampiamente filtrata dallo sguardo interiore dei diversi fotografi, in un misto di prospettive che sfondano la dimensione metafisica surclassando l’elemento tangibile dell’oggetto.
Non è difficile immaginare il parallelismo esistente tra questi luoghi romantici sentimentali e la pandemia in atto, come se la fotografia fosse momento di rifugio per allontanarsi dalle sofferenze del presente, lasciandosi cullare da una atemporalità lontana persino dalle nozioni della fisica. Ne consegue un concentrarsi sulla materia del ricordo tale da ridurre lo spazio in favore di un tempo che appare tanto più infinito quanto, oggi, si avverte nel suo scorrere. D’altronde, come osserva il filosofo Roberto Diodato, “noi siamo fatti di tempo, siamo forme di tempo spezzato, pezzi di divenire, eventi, e il mio io non è altro che ricordo e memoria, imprecisa e intermittente”.
Un eccesso di sentimentalismo, forse, se analizzato dal clinico cinismo a cui la cronaca odierna ha abituato lo spettatore italiano, ma come biasimare l’animo fragile dell’essere umano che colto nell’ora d’annata del travaglio 
– emotivo, fisico, affettivo, contestuale e futuribile – cerca in un paesaggio muto qualcosa che possa lenirne le sofferenze? Sono ore sospese dove tutto è possibile, persino un’insperata Salvezza.
A riprova di ciò, tra i tanti artisti presenti in mostra, il cuore al neon di Fabrizio Ceccardi (1960), vissuto con forza nel contrasto tra luce e oscurità, un’alternanza che pare simile al muscolo cardiaco; così come l’intensa poesia Luigi Ghirri (1943-1992), che nelle sue fotografie ritrae un presente divenuto troppo velocemente un malinconico passato. Allo stesso modo fanno le fotografie di Augusto Cantamessa (1927-2018), che narrano un universo di vita intriso di atmosfere piemontesi, uno spaccato sociale e culturale dal forte valore umano. Come racconta Bruna Genovesio, “le sue immagini sono un caleidoscopio di stati d’animo e atmosfere rappresentative di un mondo che mutando continuamente, rimane intatto nelle sue peculiarità umane e naturali”. Atmosfere a che si susseguono negli scatti di Ilaria Abbiento (1975): stregata dal mito del viaggio, coglie l’occasione di scoprire parti di sé attraverso gli scorci di una Sardegna inedita, al punto da abbandonare presto la sfera del reportage per giungere a una ricerca interiore.
Luca Campigotto (1962) propone una veduta di Venezia secondo la prospettiva capovolta di Palazzo Grimani: La Tribuna, viene ripresa secondo il gioco prospettico del “sotto in su”, sulla scia dei pittori illusionistici attivi tra il tardo cinquecento e l’inizio del seicento. La scultura riprende un giovane Ganimede, appeso al centro della sala nell’istante in cui viene rapito da un’aquila mandata da Zeus o, secondo quanto tramandato da Ovidio, impersonata dallo stesso Dio.
La sottile dicotomia che si crea tra i tempi e gli spazi sospesi dell’abitare metropolitano è al centro dell’opera di Marco Dapino (1981), che ispirandosi ai versi delle poesie dello scapigliato Delio Tessa, accompagna lo sguardo del visitatore a immergersi nella scoperta di Milano. Le foto in mostra colgono il tetraedro luminoso ospitato all’ingresso della Stazione Centrale, luogo simbolo della realtà meneghina densa di vite e appuntamenti col destino, svelandone il lato più misterioso, magico e occulto, e mettendo a fuoco l’interazione esistente fra l’uomo e lo spazio circostante. Massimiliano Gatti (1981) propone la serie Anche tu sei collina, ispirata dalla raccolta di nove poesie che Cesare Pavese pubblicò per la prima volta nella rivista Le tre Veneziane, nel 1947. Il “pal di castegn” sorregge le viti, instancabilmente immerso nella terra, arsa d’estate e fradicia d’inverno. Thomas Jorion (1976) propone una serie di scatti tratti da Veduta, progetto fotografico realizzato tra il 2009 e il 2019, in occasione di un Grand Tour lungo la penisola italiana. Un percorso che affonda le proprie radici nei secoli scorsi e che, proprio da essi, pare recuperare una vena decadente, racchiusa nei luoghi abbandonati colmi di magia che ha incontrato.
In mostra, spazio anche al giovanissimo Jacopo Valentini (1990), che raggiunge il suo culmine nella serie di Volcano’s Ubiquity, suo primo lavoro che verte su un neologismo: la vulcanicità. Il progetto fotografico, raccoglie una serie di riflessioni attorno all’immagine del vulcano Vesuvio, elemento distintivo della città di Napoli. L’obbiettivo centrale della sua ricerca consiste nel decontestualizzare determinati elementi di un luogo, strappandoli e reinserendoli in uno spazio distante dall’habitat naturale, come nel caso del biscotto di San Gennaro esposto in mostra.

Ore Sospese. Un Diario Italiano
a cura di Pierre André Podbielski e Maud Greppi

Artisti: Luigi Ghirri, Augusto Cantamessa, Ilaria Abbiento, Luca Campigotto, Bruno Cattani, Fabrizio Ceccardi, Roberto Cotroneo, Marco Dapino, Massimiliano Gatti, Thomas Jorion, Ugo Ricciardi, Marco Rigamonti, Massimo Siragusa, Jacopo Valentini, Francesco Zizola

15 ottobre – dicembre 2020

Podbielski Contemporary
Via Vincenzo Monti 12, Milano

Orari: da martedì a venerdì 14.30-19.00; sabato su appuntamento
Ingresso libero
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ATTENZIONE: Le visite sono regolate dall’attuale normativa Covid-19
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Info:+39 338 238 1720
info@podbielskicontemporary.com
www.podbielskicontemporary.com


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espoarte | STUDIO LA CITTÀ: MASSIMILIANO GATTI RACCONTA LA SUA ALEPH

1/7/2020

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 VERONA | STUDIO LA CITTÀ | DAL 19 MAGGIO 2020
I ntervista a MASSIMILIANO GATTI di Serena Filippini

Martedì 19 maggio la galleria veronese Studio la Città ha riaperto le sue porte per presentare Aleph, mostra personale di Massimiliano Gatti (Pavia, 1981), fotografo da anni impegnato tra l’Italia e il Medio Oriente al seguito di importanti missioni archeologiche.
La mostra, curata da Maud Greppi, vede protagoniste alcune serie fotografiche realizzate negli ultimi anni come In superficie (2014), Aleppo è una foglia d’alloro (2018), Le nuvole (2019) e La collezione (2020), quest’ultima presentata da Gatti per la prima volta.
In occasione dell’apertura l’abbiamo incontrato per approfondire insieme a lui le direzioni intraprese per il progetto espositivo e la sua ricerca artistica.

Com’è nata la tua mostra personale Aleph? Il titolo è abbastanza emblematico e ricco di significati; ce ne parli?
L’idea è nata quando la gallerista di Studio la Città ed io abbiamo iniziato a pensare a un’idea di mostra andando a scegliere i progetti forse più simbolici e meno descrittivi.
In seguito, con l’aiuto di Maud Greppi, la curatrice, abbiamo definito il filo conduttore che ruota intorno al simbolo dell’Aleph.
Aleph è la prima lettera dell’alfabeto fenicio e corrisponde al numero uno, con l’accezione simbolica di inizio, sorgente, luogo da cui si dipanano tutti i luoghi. Mi piace ricordare che dalla mezzaluna fertile si sono sviluppate le nostre culture e religioni, quindi pensare al Medio Oriente come a una terra primigenia che ha dato origine alla nostra civiltà, come dice Borges nel suo racconto: l’Aleph è «il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli».
Per cui la mostra è una sorta di ricerca dell’Aleph che, come dice Maud Greppi, nel suo testo introduttivo “si delinea come immagine di un infinito nascosto senza presunzione in qualunque anfratto polveroso e abbandonato della quotidianità”.

Questa per te è la prima mostra personale presso Studio la Città; avevi già collaborato prima per altri progetti insieme alla galleria veronese?
Avevo partecipato a una mostra negli spazi di Studio la Città nel 2017, intitolata Archeologie del presente, pensata da Angela Madesani. Si trattava di una mostra con opere di grandi artisti sia arabi che occidentali tra cui Lynn Davis, Gabriele Basilico e altri ancora, che scandagliava attraverso una prospettiva artistica le importanti questioni legate al Vicino Oriente come il colonialismo, l’immigrazione, le recenti guerre e le ferite al patrimonio storico e archeologico.

All’interno della mostra sono esposte quattro serie fotografiche realizzate dal 2014 ad oggi, di cui una inedita intitolata La collezione derivata da una raccolta personale di francobolli siriani; qual è la storia di questa collezione?
Mi sono trovato a riguardare una serie di francobolli siriani e ho cominciato a catalogarli in base a quello che vi era rappresentato. Così facendo mi sono accorto che ne stava nascendo un racconto. Il francobollo è un oggetto molto poetico, nella sua fragilità conserva un forte potere evocativo. Ne risulta una narrazione fortemente simbolica, un accumulo di immagini che delineano il volto di una Siria lontana, immaginata e presente, forse solo ormai, nei miei ricordi e, come la memoria, i francobolli raccontano un paesaggio frammentato e fragile. Per cui mi sembrava perfetto inserire questo nuovo progetto artistico all’interno della mostra Aleph che racconta in maniera molto metaforica il Medio Oriente.

Avendo lavorato per molti anni in Medio Oriente, molte delle tue opere – tra cui alcune esposte in mostra – sono nate ispirandoti a luoghi vissuti e oggetti visti stando al seguito di missioni archeologiche; come avviene il processo creativo per la realizzazione di queste opere? Ci sono differenze rispetto all’iter creativo delle opere realizzate in Italia?
È difficile razionalizzare i meccanismi di un processo creativo, posso dire che il mio approccio è sempre lo stesso: ci sono dinamiche storiche, culturali e sociali che mi interessano e su cui focalizzo la mia attenzione. Alcuni dei miei progetti artistici tra cui Aleppo è una foglia d’alloro o la stessa Collezione sono stati realizzati in Italia sebbene abbiano a che fare con la realtà medio orientale.
Le esperienze in Siria e Iraq mi hanno aperto le porte di una percezione diversa, e nel complesso la visione del mondo attraverso la cultura araba mi ha dato una prospettiva che cerco sempre di seguire. Infatti il mio intento è di sbozzare una situazione complessa e renderla con essenzialità e semplicità. Ma la semplicità non significa superficialità, anzi è il suo contrario, è il risultato di un processo di sintesi molto elaborato, che scava in profondità ed è fatto anche di responsabilità.

Siamo tutti reduci da un periodo di blocco e di obbligata riprogrammazione dei nostri impegni e progetti – la tua stessa mostra avrebbe dovuto essere inaugurata lo scorso marzo – come è stato tornare ad allestire una mostra con una data di apertura reale e non soltanto preventivata come siamo stati abituati a fare negli ultimi mesi? Come pensi reagirà il pubblico alla possibilità di tornare a visitare luoghi d’arte?
Devo dire che quando Studio la Città mi ha proposto l’apertura della mia mostra Aleph, subito dopo il lockdown, ho accolto con grande entusiasmo la proposta. Di fatto è una grande sfida, perché il virus ha radicalmente cambiato il modo di fruire le mostre, non si ha idea di quale possa essere la reazione del pubblico, ma credo che sia un periodo interessante e inaugurare una mostra in questo momento storico è un segnale positivo e di grande coraggio.
Aleph è la prima lettera dell’alfabeto fenicio, è simbolo di inizio e questo non può che essere davvero un nuovo inizio.

Dopo questa mostra hai in programma qualche progetto futuro a cui ti dedicherai?
Il periodo storico che stiamo vivendo ci permette di abbozzare qualche programma, senza avere la certezza che si realizzi. Nel frattempo, sto lavorando a qualche nuovo progetto di ricerca personale, il lockdown che abbiamo passato mi ha fatto tornare a riflettere molto sulle mie radici e le mie origini.
Invece, con la galleria milanese Podbielski Contemporary sto cominciando a stendere un programma di mostre e fiere per la stagione autunnale.

Massimiliano Gatti. Aleph
a cura di Maud Greppi
in collaborazione con Podbielski Contemporary
19 maggio – luglio 2020
Studio la Città
Lungadige Galtarossa, 21, Verona

In osservanza a tutte le disposizioni previste dal Governo è possibile accedere allo spazio muniti di guanti e mascherina nei seguenti orari: da martedì a giovedì 10.00-13.00 e 15.00-18.00
Ingresso libero.

Le visite guidate, della durata di 50 minuti, con prenotazione obbligatoria per un massimo di 8 persone, vengono effettuate nelle seguenti giornate:
venerdì 13.30-14.30 e 16.00-18.00 e sabato 11.00-13.00 e 16.00- 18.00
Info: +39 045597549
info@studiolacitta.it
www.studiolacitta.it

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artribune | Massimiliano Gatti: uno sguardo contemporaneo sugli scavi archeologici in Medio Oriente

1/7/2020

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POSTICIPATA A CAUSA DELLA PANDEMIA, HA APERTO LA MOSTRA PRESSO STUDIO LA CITTÀ DI VERONA DEDICATA AL FOTOGRAFO CHE DA ANNI SI DIVIDE TRA ITALIA E MEDIO ORIENTE, A FIANCO DI IMPORTANTI MISSIONI ARCHEOLOGICHE. LO SCOPO ULTIMO NON È LA SEMPLICE DOCUMENTAZIONE, MA LA COMPRENSIONE DELLE ROVINE IN CHIAVE CONTEMPORANEA.

Non si tratta di realizzare un reportage degli scavi archeologici, bensì di leggere le rovine del Medio Oriente attraverso uno sguardo profondamente inserito nella contemporaneità. Su questo si focalizza la ricerca di 
Massimiliano Gatti (Pavia, 1981), laureato prima in Farmacia e poi in Fotografia alla Bauer di Milano, lo stesso autore con cui la Galleria Podbielski di Milano aveva inaugurato il suo spazio. La sua carriera artistica è iniziata partendo al fianco di importanti missioni archeologiche: prima a Qatna, in Siria, dove ha operato dal 2008 al 2011, poi con il Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive (PARTeN), nel Kurdistan iracheno, finanziato dall’Università di Udine assieme a Fondazione CRUP. Quei luoghi, quei monumenti e quegli oggetti dal sapore antico e ancestrale vengono raccontati in una mostra personale a lui dedicata da Studio la Città di Verona: il titolo, Aleph, è la traslitterazione della prima lettera dell’alfabeto fenicio, adottata anche da quello ebraico. Si tratta di una lettera che simboleggia anche un numero e il concetto di inizio, dove tutto ha origine. La mostra rimarrà allestita fino al 31 luglio. Per accedervi, è necessario prenotare in anticipo la propria visita scrivendo una mail a gallery@studiolacitta.it.

MASSIMILIANO GATTI DA STUDIO LA CITTÀ DI VERONA
“Nell’alfabeto ebraico le lettere venivano impiegate anche come numeri, e ad Aleph corrispondeva il numero uno, ricoprendo così l’accezione simbolica di inizio, sorgente, luogo da cui si dipanano tutti i luoghi”, spiega la curatrice Maud Greppi a proposito del lavoro di Gatti, che da anni divide la sua vita professionale tra Italia e Medio Oriente. “Dal significato di questa parola viene così a definirsi l’incipit di un percorso espositivo improntato sull’esperienza maturata da Massimiliano Gatti in Medio Oriente, coniugando a una ricerca approfondita di stampo documentaristico un racconto intimo volto a tramandare una memoria nel tempo. In questo senso Aleph può essere inteso come punto di inizio, l’avvio di un percorso in costante trasformazione verso futuro ignoto, proprio come quello di queste terre, culla della nostra civiltà”.

LE OPERE IN MOSTRA A STUDIO LA CITTÀ DI VERONA
Le opere in mostra sono tratte da quattro serie. In Superficie (2014), realizzata in occasione della missione archeologica organizzata dall’Università di Udine in Iraq, nei pressi dell’antica città di Ninive, Aleppo è una foglia d’Alloro, incentrata sullo scorrere inesorabile del tempo e sulle sue conseguenze, Le Nuvole, gruppo di lavori dove Gatti accosta immagini del sito archeologico di Palmira, a coltri di nubi che ne documentano la devastazione per mano dell’ISIS e La Collezione, serie inedita esposta per la prima volta nella galleria veronese: una narrazione fortemente simbolica di una Siria che ormai non c’è più ma che rivive nella raccolta personale di francobolli dell’autore.

-Giulia Ronchi

Massimiliano Gatti, Aleph
fino al 31 luglio 2020
Studio la Città
Lungadige Galtarossa 21, Verona
http://studiolacitta.it/
Per prenotazioni: gallery@studiolacitta.it


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artribune | Fase 2 delle gallerie: Studio la Città di Verona riapre con le visite guidate a numero chiuso

18/5/2020

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VISITE GUIDATE CON PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA PER UN MASSIMO DI 8 PERSONE SOLO 2 GIORNI A SETTIMANA PER APPROFONDIRE LE OPERE IN MOSTRA, ANCHE CON ANEDDOTI. 

Come per i musei, anche per le gallerie il giorno 18 maggio – anzi il giorno dopo, essendo il 18 un lunedì e quindi dedicato alla pausa settimanale – rappresenterà la data di fine lockdown. Tra ingressi contingentati e uso di guanti e mascherine, c’è chi ha elaborato ulteriori strategie per permettere al pubblico di visitare in sicurezza le proprie mostre. È questo il caso di Studio la Città di Verona che, dopo aver reso accessibile in forma virtuale la collettiva sul vetro già allestita prima della chiusura per coronavirus attraverso un video, ora organizza alcune visite guidate per un numero massimo di otto persone.

STUDIO LA CITTÀ: COME FUNZIONERANNO LE VISITE
“La galleria riapre il 19 maggio, un martedì: abbiamo pensato che tutti noi siamo stati chiusi in casa e la voglia di uscire e vedere cose nuove è tanta, ma anche la paura è tanta perché siamo tutti consci che questo virus non ci lascerà cosi facilmente, quindi l’idea delle visite guidate a numero chiuso potrebbe essere un modo piacevole per vedere la mostra della quale abbiamo fatto un video inviato a tutti i nostri collezionisti e amici”, racconta ad Artribune la titolare della galleria Hélène de Franchis. “Vedere le opere dal vero è ben diverso dal vederle su uno schermo. La luce, la dimensione, toccano la sensibilità delle persone in modo diverso e spero che il pubblico avrà la curiosità di capire se quello che avevano visto nel video darà la stessa emozione dal vero. Mi ricordo che anni fa un grande collezionista al quale avevo proposto un’opera di Fontana di grandi dimensioni mandandogli una diapositiva mi rispose: ‘devo vederla, se al naturale mi dà la stessa emozione che mi ha dato in piccolo la diapositiva, la compro’”.

STUDIO LA CITTÀ: LE MOSTRE IN PROGRAMMA
Sono state, così, programmate delle visite guidate non solo della collettiva ma anche della personale del fotografo Massimiliano Gatti, per la durata di 50 minuti, con prenotazione obbligatoria per un massimo 8 persone, nelle giornate di venerdì (dalle 13.30 alle 14.30 e dalle 16 alle 18) e di sabato (dalle 11 alle 13 e dalle 16 alle 18). “La visita guidata è un modo per approfondire le opere, chi vuole essere libero di pensare e guardare in pace verrà in visita per conto proprio. Penso di fare io le visite guidate, anche perché vorrei che fosse una conversazione e un racconto e non una lezione. Nel caso avessimo molte richieste una mia assistente mi aiuterà. Sono opere e artisti che ho scelto uno a uno per diversi motivi quindi credo di poter raccontare anche aneddoti che forse non tutti sanno”, continua de Franchis. “Inoltre ci sarà anche la mostra di fotografie di Massimiliano Gatti che non avevamo potuto installare prima della chiusura della galleria per cui non è stata fatta vedere in video. Massimiliano è un giovane fotografo che abbiamo già esposto qualche tempo fa in una mostra collettiva, ‘Archeologia del Presente’ curata da Angela Madesani. Le sue foto sono di piccole dimensioni e spesso di siti archeologici, molti dei quali sono stati distrutti. Visite guidate intese come un primo passo verso una normalità che non sarà più la stessa di sempre. “Credo che questo periodo di solitudine cambierà il nostro approccio all’arte e quindi alla vita. Gli artisti e le gallerie hanno sofferto molto in questi due mesi non solo dal punto di vista finanziario, ma soprattutto per non aver potuto comunicare e condividere le loro idee con il pubblico, tramite il loro lavoro. Dal mio punto di vista non so se si può vivere senza bellezza e senza un pensiero che trascenda dalla vita di tutti i giorni, questa è una prerogativa solo dell’arte, intesa come musica, letteratura, danza, ecc.”, conclude la gallerista che annuncia: “nei prossimi giorni organizzeremo un’asta ‘Aiutiamo gli artisti’ per far sì che i collezionisti, i visitatori delle mostre, le fondazioni, i curatori, gli amici, possano contribuire ad aiutare il mondo dell’arte e continuare a usufruire della Bellezza che gli artisti ci propongono”.

Claudia Giraud


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Radio3 Suite - Magazine - Una novità editoriale

24/2/2020

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intervista @ Radio3 Suite - Magazine

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Fabio Cifariello Ciardi con Massimiliano Gatti per una novità editoriale

Massimiliano Gatti, Le nuvole,  La Grande Illusion

Le nuvole è un libro che nasce dal progetto fotografico di Massimiliano Gatti sulle rovine di Palmira, in Siria. Un reportage in due tempi, in cui l’autore accosta alle fotografie del sito archeologico di Palmira, le fotografie, realizzate a partire dal fermo immagine dei video di propaganda Isis che ne documentano la distruzione. Immagini tratte da dispositivi digitali dove «il pixel, da unità di misura, diviene strumento di lavoro, come se fosse un pennello per sfumare», scrive Angela Madesani nella presentazione.

Al telefono Massimiliano Gatti
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ASCOLTA L'INTERVISTA

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il manifesto | Palmira, prima rudere e poi nuvola

20/1/2020

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Palmira, prima rudere e poi nuvola

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Fotografia archeologica. Gli scatti «scorretti» di Massimiliano Gatti montati con i fermoimmagine presi dai video propagandistici dell’Isis: dolore e protesta per un delitto culturale. Le nuvole, minuscolo e raffinato libro edito da Giuseppe Zapelloni

Il volume è minuscolo e raffinato, alessandrino nella sua ricercatezza 
undersized. Lo pubblica l’editore Giuseppe Zapelloni, in un catalogo che s’intitola alla Grande Illusion di Renoir figlio. Curiosa la coincidenza, secondo quanto mi viene riferito, dell’apparizione di Erich von Stroheim, indimenticabile Rauffenstein nella finzione cinematografica, tra le slides presentate da Mario Torelli a Orvieto, solo poche settimane fa, in una conferenza dedicata ai principi etruschi. Aristocratici veri, aristocratici falsi, fantasmi in bianco e nero, il cinema, illusioni. Appunto.
Coerentemente, il piccolo libro si intitola Le nuvole, che sono pur qualcosa di volatile e illusorio. L’ha messo insieme un grafico talentuoso, Andrea Geremia, lavorando sugli scatti di Massimiliano Gatti, che è stato fotografo al seguito delle missioni archeologiche dell’Università di Udine in Siria e nel Kurdistan iracheno, raccogliendo fra l’altro una ricca serie di immagini di Palmira prima delle distruzioni degli anni 2013-’17. Non sono queste le canoniche fotografie di scavo, quelle che hanno il compito di documentare visivamente il monumento e pretendono inquadratura completa, ortogonalità del punto di vista, riduzione al minimo di ombre obliteranti e un attento bilanciamento del chiaroscuro, in modo che siano esaltati i volumi senza nascondere il dettaglio dell’ornamentazione. Gatti ha scelto, invece, alcune sue immagini scorrette, rubate nelle pause del lavoro scientifico, riprese di regola dentro il biancore sfatto del mezzogiorno – l’ora panica dei Greci antichi, quando gli occhi si chiudono per la troppa luce e lasciano trascorrere veloci solo sagome di demoni, magri e spigolosi –, senza acribia di documentare e con rifiuto consapevole della tangibilità del monumento, che viene quasi annullato dalla sovraesposizione e dall’assenza di contrasto.
Con montaggio editoriale a dittico, alle foto di una Palmira com’era, ma esangue e già fantasmatica, sono giustapposti fermoimmagine di esplosioni fumiganti, tratti dai video propagandistici messi in rete dall’Isis. Ciò vale a esprimere, beninteso, dolore e protesta per l’orrendo delitto culturale, ma propone al contempo un esercizio elegante di retorica visiva, attraverso l’illusorietà delle immagini: per cui ‘nuvola’ è anzitutto la tecnica fotografica, che cattura l’impressione istantanea di cose che pur sono state, in quel preciso momento, ma ora, quand’anche superstiti, non sarebbero più, e davvero non sono più, perché qualcuno le ha distrutte; e altre istantanee, quelle dei fumi che sbianchettano l’orizzonte, sembrano restituire il farsi negativo del distruggere, ma aggiungono inganno a inganno, sottraendo alla vista anche il dopo di quelle rovine.
Rovine: un’altra parola-chiave. Rovine prima, rovine dopo. Rovine prima, quelle di Palmira, come di qualunque sito archeologico: si sa, la percezione della rovina, della sua distanza dal presente di chi osserva, fonda il senso della storia e dà motivo a quel particolare distruggere che è lo scavo. Ma è rovina aggiunta quella procurata dai dinamitardi dell’Isis: rovina di rovina, che pretenderà altri scavi, altre rimozioni (sia pure ragionate), altre nuvole e altre sabbie.
Il piccolo libro (e 21,00) ha copertina doppia e una premessa di Angela Madesani che viene due volte ripetuta, in italiano e in arabo, sicché potrà leggersi a specchio, da sinistra a destra, cioè dal rudere alla nuvola, così come da destra a sinistra, dalla nuvola al rudere. Palmira lontanante, che pareva esserci, ma in quanto rovina non c’era più; Palmira che viene distrutta e si ripropone come (nuova) rovina; e Palmira che sarà (?) oltre la nuvola che nell’istante la cancella.
Per un’altra curiosa coincidenza, in questi giorni mi son trovato per le mani – o più esattamente sullo schermo del pc: un’altra, forse la maggiore tra le odierne grandes illusions – certe parole che Primo Levi mise in bocca a Plinio il Vecchio: «Voglio osservare da presso quella nuvola fosca / Che sorge sopra il Vesuvio ed ha forma di pino, / Scoprire d’onde viene questo chiarore strano». Sappiamo tutti com’è finita: che il volenteroso ammiraglio andò troppo vicino alla «nuvola fosca» – era quella del Vesuvio! – e ne morì intossicato. Strana cosa le nuvole: un nulla che si sfa, senz’anima e colore; ma nascondono a volte bocche di fuoco di vulcani.

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Maurizio Harari

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le nuvole, presentazione @ fondazione sozzani

14/12/2019

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Foto
Presentazione del volume
Le nuvole
di Massimiliano Gatti


Mercoledì 11 dicembre 2019 alle ore 19.00 alla Fondazione Sozzani, incontro con il fotografo Massimiliano Gatti, Maurizio Harari, docente di Etruscologia e Archeologia italica, e Angela Madesani, storica dell’arte e curatrice, in occasione della pubblicazione del libro fotografico Le nuvole, edito da La Grande Illusion.

Le nuvole è un libro che nasce dal progetto fotografico di Massimiliano Gatti sulle rovine di Palmira, in Siria. Un reportage in due tempi, in cui l’autore accosta alle fotografie del sito archeologico di Palmira, le fotografie, realizzate a partire dal fermo immagine dei video di propaganda Isis che ne documentano la distruzione. Immagini tratte da dispositivi digitali dove «il pixel, da unità di misura, diviene strumento di lavoro, come se fosse un pennello per sfumare», scrive Angela Madesani nella presentazione.
Nelle Nuvole, la commedia di Aristofane, le nubi sono eteree e impalpabili divinità che il drammaturgo greco associa alla leggerezza del pensiero delle nuove correnti filosofiche. Con la stessa attitudine Massimiliano Gatti accosta immagini di colonne imponenti e vaste strutture architettoniche alla leggerezza delle nuvole di polvere che si sollevano con la distruzione di un monumento. Il libro si legge sia all’occidentale sia all’araba, da sinistra a destra e viceversa, ed è tradotto in lingua araba.

Massimiliano Gatti si laurea in Farmacia e si diploma in Fotografia al Cfp R. Bauer di Milano. Fotografo al seguito di missioni archeologiche in Medio Oriente (dal 2008 al 2011 a Qatna in Siria, e dal 2012 nel progetto PARTeN nel Kurdistan iracheno) ha modo di vivere e approfondire la conoscenza di terre leggendarie. Con un metodo documentaristico, la sua ricerca spazia dall’esplorazione del passato, dei resti e delle rovine degli antichi, fino all’osservazione della realtà contemporanea, con una propria riflessione personale. Vive e lavora tra l’Italia e il Medio Oriente.

Maurizio Harari dirige il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia, dove insegna Etruscologia e Archeologia italica. Ha insegnato al London University College (1988-91), a Ferrara (1992-2001)
e condotto campagne di scavo in siti etruschi dell’Alto Adriatico, nell’entroterra di Adria e a Verucchio. Fra le sue numerose pubblicazioni
Gli Etruschi del Po (Cardano, 2000), Icone del mondo antico. Un seminario di storia delle immagini (L’Erma di Bretschneider, 2009) e Andare per i luoghi di Ulisse (il Mulino, 2019).

Angela Madesani Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice de Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia di Storia della fotografia (Bruno Mondadori, 2005 e 2008) de Le intelligenze dell’arte (Nomos edizioni, 2016). Suo è il saggio introduttivo del volume Artist’s Invitations 1965- 1985 (Danilo Montanari Editore, 2019). Ha curato numerose mostre presso istituzioni italiane e straniere. Ha scritto su Gabriele Basilico, Giuseppe Cavalli, Luigi Ghirri, Francesco Jodice, Anne e Patrick Poirier, Elisabeth Scherffig, Franco Vaccari, Giulio Paolini. Responsabile della sezione fotografica di Artribune. Insegna all’Accademia di Brera e all’Istituto Europeo del Design di Milano.
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Le nuvole fotografie di Massimiliano Gatti,
​presentazione di Angela Madesani Copertina e grafica di Andrea Geremia
16 x 19,5 cm 48 pagine
brossura con doppia sovracoperta testi in italiano e in arabo
Edizione speciale con fotografia 210,00 €
Brossura con doppia sovracoperta 21,00 €
La Grande Illusion, 2019 

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espoarte |SOTTOPELLE: UNA MOSTRA IN TRE ATTI

10/8/2019

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Foto
SOTTOPELLE 
VERMIGLIO (TN) | FORTE STRINO 
​22 GIUGNO – 15 SETTEMBRE 2019


​Intervista a SERENA FILIPPINI di Alice Vangelisti

Con Sottopelle. Storie di memorie e persistenze la curatrice Serena Filippini mette in scena un dialogo intenso e profondo tra l’arte contemporanea e gli spazi espostivi. Il progetto allestitivo prende vita grazie all’impulso del tema che accomuna le tre esposizioni, attraversandole nel tempo e nello spazio. Il fil rouge dell’intera esposizione è, infatti, la memoria, concetto effimero e astratto che prende forma tangibile nelle sue diverse sfaccettature attraverso le opere di Andrea Cereda, Diego Soldà, Roman Opalka, Nicoló Tomaini e Massimiliano Gatti, le quali si ritagliano il proprio spazio all’interno di luoghi ricchi di storia e passato. Intervistiamo la curatrice sul progetto espositivo di questa grande narrazione in tre atti, di cui il terzo e ultimo sarà visitabile presso il Forte Strino a Vermiglio
(TN).

Sottopelle. Storie di memorie e persistenze è un progetto espositivo che hai co-curato insieme a Matteo Galbiati, concentrandoti sul tema della memoria. Qual è la genesi di quello che potremmo definire una sorta di trittico allestitivo?
Tutto nasce circa un anno fa dall’idea di lavorare sulla memoria attraverso le opere di artisti contemporanei. Fin da quando ero bambina, ho avuto un grande interesse per questo tema e l’ho sempre sentito come una parte integrante del mio essere. In particolar modo, mi ha affascinato fin da subito l’idea di andare ad analizzare l’aspetto più sociologico della memoria. Mi sono concentrata su quella che il sociologo francese Maurice Halbwachs definisce memoria collettiva. Si tratta di una sorta di grande magma di ricordi, memorie ed esperienze vissute che si incrociano fino a costituire il retroterra culturale e storico di intere comunità che, seppure formate da singoli individui, sono caratterizzate da elementi, valori e simboli comuni che derivano proprio dal loro vivere nel tempo e dalle loro esperienze.

Parallelamente alla definizione del tema, ho pensato di strutturare il progetto espositivo in tre sedi e regioni diverse, così da consentire un peculiare flusso di memorie che, tramite le opere d’arte in essi esposte, si spostasse da un luogo all’altro e si adattasse al “contenitore”, un po’ come succede alle persone con i loro ricordi: esse si spostano, cambiano, si trasformano, ma i ricordi che fanno parte della loro personale memoria rimangono custoditi in loro per sempre, ovunque vadano. Trattandosi di un progetto di tesi specialistica, lo scorso ottobre ho quindi proposto la mia idea a Matteo Galbiati che è diventato il relatore della tesi, oltre che il co-curatore di questo progetto.

Un progetto espositivo che si struttura quindi in 3 atti. Come si svolge il percorso allestitivo e perché ti sei concentrata in particolare su questa suddivisione per atti, ognuno dei quali corrisponde a una diversa mostra d’arte contemporanea, con però una continuità tematica che si ripercorre in tutti gli allestimenti?
La suddivisione è ispirata alle opere teatrali che, nella maggior parte dei casi, si svolgono in atti, come se fossero diversi episodi della stessa storia. In questo caso, fin da subito mi ha attratto l’idea di creare una mostra in tre atti, in cui ciascuno di questi fosse una sorta di capitolo diverso di un unico grande libro: la storia che viene raccontata è una sola, ma divisa nelle diverse sfaccettature che la riguardano. Il progetto espositivo è partito dall’Atto I – con gli artisti Andrea Cereda e Diego Soldà – concentrandosi sull’origine della memoria, passando poi attraverso l’Atto II – con Roman Opalka e Nicolò Tomaini – dedicato ad una riflessione sul tempo e sugli effetti che ha sull’uomo in base alle diverse epoche storiche, e si è concluso infine con l’Atto III – con protagoniste le fotografie di Massimiliano Gatti – che si interroga sull’epilogo della memoria. Si può quindi parlare di Sottopelle. Storie di memorie e persistenze come di una narrazione a tutti gli effetti, ma, anziché servirsi delle parole per trasmettere concetti, si serve di opere d’arte contemporanea.

Tre atti, tre mostre e tre luoghi diversi. Come è nata questa idea di lavorare su tre spazi così diversi tra di loro, per di più in tre regioni differenti? Perché la scelta è caduta proprio su questi spazi?
L’idea di coinvolgere in questo progetto tre siti storici, intendendo con questa definizione dei luoghi vissuti e ricchi di storia che riaffiora dal passato, è facilmente comprensibile nell’ottica della memoria e del suo forte legame con la storia passata. Si è creata così una rete tra i diversi spazi, che si sono trovati a collaborare e a interagire, accomunati dalla riflessione sulla memoria. La scelta è quindi caduta su tre luoghi ben differenti tra loro per storia, funzione, aspetto e conformazione, collocati, tra l’altro, in tre regioni vicine ma diverse: Lombardia, Veneto e Trentino-Alto Adige. Ho voluto, inoltre, seguire una cronologia nello svolgimento dei tre atti: l’Atto I è stato allestito nel Castello Visconteo di Pandino (CR), un maniero trecentesco; l’Atto II è stato “messo in scena” nella Villa Caldogno a Caldogno (VI), una villa palladiana del ‘500, oggi patrimonio dell’UNESCO; e, infine, con l’Atto III, si è fatto un salto nel tempo arrivando al 1860, anno di costruzione del Forte Strino a Vermiglio (TN), una fortezza austro-ungarica utilizzata durante gli anni della Prima Guerra Mondiale. Queste sedi, valutate insieme ad altre, mi hanno affascinata per la loro diversità, per la storia che ciascuna porta con sé, e perché, nel momento in cui le ho scelte, ottenendo collaborazione e disponibilità dalle loro amministrazioni comunali, mi sono fin da subito prefigurata come gli artisti parte del progetto avrebbero potuto dialogare con gli spazi attraverso le loro opere.

Un castello, una villa e un forte sono diventati così gli spazi espositivi di questo progetto. Come si sono relazionate le diverse opere con gli ambienti che le ospitavano? Qual è l’aspetto più interessante nel lavorare con l’arte contemporanea al di fuori dei luoghi convenzionali a essa deputati?
Allestire opere d’arte contemporanea all’interno di spazi non abitualmente adibiti ad ospitarla, e quindi al di fuori di sale candide ed intonse, desta ormai da qualche anno il mio interesse. Prima di tutto apprezzo il dialogo – se curato e studiato in tutti i suoi dettagli – che viene a crearsi tra lo spazio, magari antico e ricco di storia, e l’attualità delle opere esposte. Inoltre, nutro profonda stima nei confronti di chi tenta di mettere in atto questo intreccio, facendo fronte ad una serie di difficoltà, prevalentemente legate alla conformazione degli spazi, che vanno fronteggiate in fase di allestimento.
Nel momento in cui ho deciso di organizzare il progetto espositivo all’interno di luoghi per così dire “difficili”, ero consapevole delle difficoltà a cui sarei andata incontro nel momento dell’allestimento. Nello stesso tempo, però, il dialogo tra ieri ed oggi e il fascino di queste sedi hanno consentito, nonostante le oggettive criticità allestitive, di ottenere dei buoni risultati senza doversi mai arrendere o adattare passivamente al luogo. Questo aspetto per me è stato fondamentale, perché non avrei mai permesso che la sede, seppure ingombrante per la sua imponenza e la sua storia, fosse un limite per la valorizzazione delle opere, né tantomeno che le opere dovessero semplicemente appoggiarsi negli spazi, come se fossero soprammobili, perché in questo modo sarebbero assolutamente venuti meno lo scambio e il dialogo alla pari tra le opere e gli spazi espositivi. Ammetto che non è per nulla facile, ma si può dare vita a dialoghi e riflessioni davvero inaspettati grazie a progetti allestitivi mirati e attraverso il coinvolgimento di artisti che non intendono il loro lavoro esclusivamente confinato all’interno di white cube ma che, al contrario, sono aperti a sperimentare e non temono il confronto con spazi “ingombranti”.

Giovani artisti, ma anche interpreti già affermati sul panorama artistico contemporaneo. Tra di loro, sia concettualmente che visivamente, sono molto diversi, però tutti ragionano sul tema di memoria. Una memoria storica e una memoria collettiva che diventano così anche specchio di identità artistiche molto differenti. Mi parli un po’ degli artisti che hai scelto e di come ciascuno di loro interpreta questo concetto attorno al quale ruota l’intero progetto?
La scelta degli artisti è avvenuta parallelamente alla definizione della storia da raccontare. La suddivisione in atti, come già accennavo, ha consentito di creare una vera e propria narrazione, sviluppata per “episodi” e dedicata alle differenti sfaccettature della memoria.
Ho quindi deciso di inserire nell’Atto I Andrea Cereda e Diego Soldà che, seppure in modalità completamente differenti, hanno ragionato sulle origini della memoria. Cereda, ricomponendo lamiere logore e consumate dal tempo, dimostra di plasmare un materiale che già per sua stessa essenza è testimone di memoria, diventando concettualmente mescolanza di vecchie memorie derivanti da storie ed esperienze distanti tra loro che danno vita a nuovi vissuti. Soldà, invece, partendo dal nulla, è lui stesso a creare nuove memorie attraverso la stratificazione del colore, che si sedimenta metaforicamente come le memorie stesse.
Con l’Atto II, invece, ho voluto rivolgere l’attenzione sul tempo, elemento imprescindibile che da sempre agisce sulla memoria e sulle nostre esistenze. In questo modo, il dialogo tra Roman Opalka e Nicolò Tomaini ha consentito di riflettere su come l’uomo attribuisca un diverso valore al tempo a seconda dell’epoca storica in cui vive. Il lavoro di Roman Opalka,
presente in mostra con tre delle sue fotografie facenti parte dell’opera Opalka 1965/1-∞, fornisce la dimostrazione tangibile del tempo che passa, che trasforma e che, tracciando linee e solchi sul viso, modifica l’aspetto esteriore, diventando restituzione visiva del cambiamento interiore e della continua metamorfosi ai quali la vita e le esperienze sottopongono l’uomo costantemente. Quello analizzato da Opalka è un tempo paziente e lento, un tempo di vita, che si fa artefice della maturazione del ricordo e della sua successiva ricomposizione in memoria. Ben diversa è la riflessione di Tomaini che, utilizzando le icone
tipiche del mondo della comunicazione digitale, attraverso la pittura e la scultura, presenta una serie di brillanti provocazioni sul rapidissimo consumo di immagini, informazioni e di relazioni e sulla superficialità con la quale scorriamo da un’informazione all’altra tramite i dispositivi di cui facciamo quotidianamente uso, portando a una totale assuefazione a essi e a una conseguente e incombente minaccia per la salvaguardia della memoria collettiva in un tempo sempre più frenetico e disattento.
Infine, con l’Atto III, si giunge all’epilogo della memoria, riflettendo su quel che resta di essa prima che venga definitivamente negata dall’oblio. Le fotografie di Massimiliano Gatti, infatti, focalizzano l’attenzione su alcuni simboli culturali depositari di storie e di memorie che nel tempo hanno acquisito lo straordinario potere di formare l’identità della società di cui sono emblema, e che proprio per questa ragione sono stati sottoposti alla loro totale eliminazione, poiché, proprio in quanto simboli identitari di un popolo, sono temuti. Si parla nella fattispecie dell’azione di Isis su sempre più numerosi monumenti millenari del Medio Oriente, e in particolar modo della devastazione messa in atto nella città siriana Palmira.
Gatti invita così a riflettere sul fatto che la memoria non sia una realtà aliena da noi, né vada percepita come legata ad un passato remoto, ma al contrario, come ad una entità i cui influssi agiscono ancora attivamente sul nostro presente.

Come riesce infine l’arte contemporanea a farsi testimonianza tangibile di un concetto così astratto e fuggevole come quello della memoria?
Questa è una delle domande che io stessa mi sono posta nel momento in cui ho ideato l’intero progetto, per poi accorgermi che in realtà non si tratta di un concetto né fuggevole né astratto. Siamo noi nel tempo – e prima di noi le generazioni che ci hanno preceduto – a causa di una presenza sempre più insistente della retorica su questo tema a cui lentamente siamo stati abituati, ad averlo fatto diventare tale, o meglio, ad averlo inteso sempre più spesso come tale, fino a convincerci del fatto che memoria sia sinonimo di qualcosa di fumoso e volatile. Riflettendo meglio, sulla base anche degli studi di sociologia su questo tema, ci si rende conto che la memoria è parte integrante di noi, del nostro vissuto ed emerge in qualsiasi momento della nostra vita, da come viviamo le esperienze, a come ci rapportiamo con gli altri, al valore che diamo ai simboli e in molte altre situazioni che affrontiamo quotidianamente. Ecco che allora, preso atto di tutti questi aspetti sulla memoria che talvolta dimentichiamo, l’arte contemporanea può farsi un’ottima interprete di questo tema che è molto più attuale di quello che pensiamo.
Inoltre sono convinta che l’arte contemporanea sia oggi uno dei pochi linguaggi che ci sono rimasti per farci riflettere e fornirci degli spunti nuovi e profondi sull’epoca che stiamo vivendo e sulle componenti umane che ci caratterizzano. Quindi perché non si dovrebbe servirsi dell’arte contemporanea per riflettere su un tema come la memoria, che dovremmo riscoprire nella sua essenza più autentica?

​Sottopelle. Storie di memorie e persistenze
Atto III – Massimiliano Gatti
a cura di Serena Filippini e Matteo Galbiati

con il patrocinio di Comune di Pandino, Comune di Caldogno, Comune di Vermiglio, Hdemia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia
in collaborazione con Castel Negrino Arte, Aicurzio (MB); Galleria Melesi, Lecco
con il contributo di Associazione Culturale Artemisia, Italfond
con il supporto di Comune di Vermiglio, Pro Loco Caldogno
catalogo bilingue italiano-inglese Vanillaedizioni

22 giugno – 15 settembre 2019
Forte Strino
SS42 74, Vermiglio (TN)

Orari: tutti giorni sino all’8 settembre 10.00-12.30 e 14.00-18.30; 
dal 17 luglio al 28 agosto tutti mercoledì sera 21.00-22.30; 
​dal 9 al 15 settembre 14.00-18.00
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