Palmira, prima rudere e poi nuvola
Il volume è minuscolo e raffinato, alessandrino nella sua ricercatezza undersized. Lo pubblica l’editore Giuseppe Zapelloni, in un catalogo che s’intitola alla Grande Illusion di Renoir figlio. Curiosa la coincidenza, secondo quanto mi viene riferito, dell’apparizione di Erich von Stroheim, indimenticabile Rauffenstein nella finzione cinematografica, tra le slides presentate da Mario Torelli a Orvieto, solo poche settimane fa, in una conferenza dedicata ai principi etruschi. Aristocratici veri, aristocratici falsi, fantasmi in bianco e nero, il cinema, illusioni. Appunto.
Coerentemente, il piccolo libro si intitola Le nuvole, che sono pur qualcosa di volatile e illusorio. L’ha messo insieme un grafico talentuoso, Andrea Geremia, lavorando sugli scatti di Massimiliano Gatti, che è stato fotografo al seguito delle missioni archeologiche dell’Università di Udine in Siria e nel Kurdistan iracheno, raccogliendo fra l’altro una ricca serie di immagini di Palmira prima delle distruzioni degli anni 2013-’17. Non sono queste le canoniche fotografie di scavo, quelle che hanno il compito di documentare visivamente il monumento e pretendono inquadratura completa, ortogonalità del punto di vista, riduzione al minimo di ombre obliteranti e un attento bilanciamento del chiaroscuro, in modo che siano esaltati i volumi senza nascondere il dettaglio dell’ornamentazione. Gatti ha scelto, invece, alcune sue immagini scorrette, rubate nelle pause del lavoro scientifico, riprese di regola dentro il biancore sfatto del mezzogiorno – l’ora panica dei Greci antichi, quando gli occhi si chiudono per la troppa luce e lasciano trascorrere veloci solo sagome di demoni, magri e spigolosi –, senza acribia di documentare e con rifiuto consapevole della tangibilità del monumento, che viene quasi annullato dalla sovraesposizione e dall’assenza di contrasto.
Con montaggio editoriale a dittico, alle foto di una Palmira com’era, ma esangue e già fantasmatica, sono giustapposti fermoimmagine di esplosioni fumiganti, tratti dai video propagandistici messi in rete dall’Isis. Ciò vale a esprimere, beninteso, dolore e protesta per l’orrendo delitto culturale, ma propone al contempo un esercizio elegante di retorica visiva, attraverso l’illusorietà delle immagini: per cui ‘nuvola’ è anzitutto la tecnica fotografica, che cattura l’impressione istantanea di cose che pur sono state, in quel preciso momento, ma ora, quand’anche superstiti, non sarebbero più, e davvero non sono più, perché qualcuno le ha distrutte; e altre istantanee, quelle dei fumi che sbianchettano l’orizzonte, sembrano restituire il farsi negativo del distruggere, ma aggiungono inganno a inganno, sottraendo alla vista anche il dopo di quelle rovine.
Rovine: un’altra parola-chiave. Rovine prima, rovine dopo. Rovine prima, quelle di Palmira, come di qualunque sito archeologico: si sa, la percezione della rovina, della sua distanza dal presente di chi osserva, fonda il senso della storia e dà motivo a quel particolare distruggere che è lo scavo. Ma è rovina aggiunta quella procurata dai dinamitardi dell’Isis: rovina di rovina, che pretenderà altri scavi, altre rimozioni (sia pure ragionate), altre nuvole e altre sabbie.
Il piccolo libro (e 21,00) ha copertina doppia e una premessa di Angela Madesani che viene due volte ripetuta, in italiano e in arabo, sicché potrà leggersi a specchio, da sinistra a destra, cioè dal rudere alla nuvola, così come da destra a sinistra, dalla nuvola al rudere. Palmira lontanante, che pareva esserci, ma in quanto rovina non c’era più; Palmira che viene distrutta e si ripropone come (nuova) rovina; e Palmira che sarà (?) oltre la nuvola che nell’istante la cancella.
Per un’altra curiosa coincidenza, in questi giorni mi son trovato per le mani – o più esattamente sullo schermo del pc: un’altra, forse la maggiore tra le odierne grandes illusions – certe parole che Primo Levi mise in bocca a Plinio il Vecchio: «Voglio osservare da presso quella nuvola fosca / Che sorge sopra il Vesuvio ed ha forma di pino, / Scoprire d’onde viene questo chiarore strano». Sappiamo tutti com’è finita: che il volenteroso ammiraglio andò troppo vicino alla «nuvola fosca» – era quella del Vesuvio! – e ne morì intossicato. Strana cosa le nuvole: un nulla che si sfa, senz’anima e colore; ma nascondono a volte bocche di fuoco di vulcani.
Maurizio Harari