VERMIGLIO (TN) | FORTE STRINO
22 GIUGNO – 15 SETTEMBRE 2019
Intervista a SERENA FILIPPINI di Alice Vangelisti
Con Sottopelle. Storie di memorie e persistenze la curatrice Serena Filippini mette in scena un dialogo intenso e profondo tra l’arte contemporanea e gli spazi espostivi. Il progetto allestitivo prende vita grazie all’impulso del tema che accomuna le tre esposizioni, attraversandole nel tempo e nello spazio. Il fil rouge dell’intera esposizione è, infatti, la memoria, concetto effimero e astratto che prende forma tangibile nelle sue diverse sfaccettature attraverso le opere di Andrea Cereda, Diego Soldà, Roman Opalka, Nicoló Tomaini e Massimiliano Gatti, le quali si ritagliano il proprio spazio all’interno di luoghi ricchi di storia e passato. Intervistiamo la curatrice sul progetto espositivo di questa grande narrazione in tre atti, di cui il terzo e ultimo sarà visitabile presso il Forte Strino a Vermiglio
(TN).
Sottopelle. Storie di memorie e persistenze è un progetto espositivo che hai co-curato insieme a Matteo Galbiati, concentrandoti sul tema della memoria. Qual è la genesi di quello che potremmo definire una sorta di trittico allestitivo?
Tutto nasce circa un anno fa dall’idea di lavorare sulla memoria attraverso le opere di artisti contemporanei. Fin da quando ero bambina, ho avuto un grande interesse per questo tema e l’ho sempre sentito come una parte integrante del mio essere. In particolar modo, mi ha affascinato fin da subito l’idea di andare ad analizzare l’aspetto più sociologico della memoria. Mi sono concentrata su quella che il sociologo francese Maurice Halbwachs definisce memoria collettiva. Si tratta di una sorta di grande magma di ricordi, memorie ed esperienze vissute che si incrociano fino a costituire il retroterra culturale e storico di intere comunità che, seppure formate da singoli individui, sono caratterizzate da elementi, valori e simboli comuni che derivano proprio dal loro vivere nel tempo e dalle loro esperienze.
Parallelamente alla definizione del tema, ho pensato di strutturare il progetto espositivo in tre sedi e regioni diverse, così da consentire un peculiare flusso di memorie che, tramite le opere d’arte in essi esposte, si spostasse da un luogo all’altro e si adattasse al “contenitore”, un po’ come succede alle persone con i loro ricordi: esse si spostano, cambiano, si trasformano, ma i ricordi che fanno parte della loro personale memoria rimangono custoditi in loro per sempre, ovunque vadano. Trattandosi di un progetto di tesi specialistica, lo scorso ottobre ho quindi proposto la mia idea a Matteo Galbiati che è diventato il relatore della tesi, oltre che il co-curatore di questo progetto.
Un progetto espositivo che si struttura quindi in 3 atti. Come si svolge il percorso allestitivo e perché ti sei concentrata in particolare su questa suddivisione per atti, ognuno dei quali corrisponde a una diversa mostra d’arte contemporanea, con però una continuità tematica che si ripercorre in tutti gli allestimenti?
La suddivisione è ispirata alle opere teatrali che, nella maggior parte dei casi, si svolgono in atti, come se fossero diversi episodi della stessa storia. In questo caso, fin da subito mi ha attratto l’idea di creare una mostra in tre atti, in cui ciascuno di questi fosse una sorta di capitolo diverso di un unico grande libro: la storia che viene raccontata è una sola, ma divisa nelle diverse sfaccettature che la riguardano. Il progetto espositivo è partito dall’Atto I – con gli artisti Andrea Cereda e Diego Soldà – concentrandosi sull’origine della memoria, passando poi attraverso l’Atto II – con Roman Opalka e Nicolò Tomaini – dedicato ad una riflessione sul tempo e sugli effetti che ha sull’uomo in base alle diverse epoche storiche, e si è concluso infine con l’Atto III – con protagoniste le fotografie di Massimiliano Gatti – che si interroga sull’epilogo della memoria. Si può quindi parlare di Sottopelle. Storie di memorie e persistenze come di una narrazione a tutti gli effetti, ma, anziché servirsi delle parole per trasmettere concetti, si serve di opere d’arte contemporanea.
Tre atti, tre mostre e tre luoghi diversi. Come è nata questa idea di lavorare su tre spazi così diversi tra di loro, per di più in tre regioni differenti? Perché la scelta è caduta proprio su questi spazi?
L’idea di coinvolgere in questo progetto tre siti storici, intendendo con questa definizione dei luoghi vissuti e ricchi di storia che riaffiora dal passato, è facilmente comprensibile nell’ottica della memoria e del suo forte legame con la storia passata. Si è creata così una rete tra i diversi spazi, che si sono trovati a collaborare e a interagire, accomunati dalla riflessione sulla memoria. La scelta è quindi caduta su tre luoghi ben differenti tra loro per storia, funzione, aspetto e conformazione, collocati, tra l’altro, in tre regioni vicine ma diverse: Lombardia, Veneto e Trentino-Alto Adige. Ho voluto, inoltre, seguire una cronologia nello svolgimento dei tre atti: l’Atto I è stato allestito nel Castello Visconteo di Pandino (CR), un maniero trecentesco; l’Atto II è stato “messo in scena” nella Villa Caldogno a Caldogno (VI), una villa palladiana del ‘500, oggi patrimonio dell’UNESCO; e, infine, con l’Atto III, si è fatto un salto nel tempo arrivando al 1860, anno di costruzione del Forte Strino a Vermiglio (TN), una fortezza austro-ungarica utilizzata durante gli anni della Prima Guerra Mondiale. Queste sedi, valutate insieme ad altre, mi hanno affascinata per la loro diversità, per la storia che ciascuna porta con sé, e perché, nel momento in cui le ho scelte, ottenendo collaborazione e disponibilità dalle loro amministrazioni comunali, mi sono fin da subito prefigurata come gli artisti parte del progetto avrebbero potuto dialogare con gli spazi attraverso le loro opere.
Un castello, una villa e un forte sono diventati così gli spazi espositivi di questo progetto. Come si sono relazionate le diverse opere con gli ambienti che le ospitavano? Qual è l’aspetto più interessante nel lavorare con l’arte contemporanea al di fuori dei luoghi convenzionali a essa deputati?
Allestire opere d’arte contemporanea all’interno di spazi non abitualmente adibiti ad ospitarla, e quindi al di fuori di sale candide ed intonse, desta ormai da qualche anno il mio interesse. Prima di tutto apprezzo il dialogo – se curato e studiato in tutti i suoi dettagli – che viene a crearsi tra lo spazio, magari antico e ricco di storia, e l’attualità delle opere esposte. Inoltre, nutro profonda stima nei confronti di chi tenta di mettere in atto questo intreccio, facendo fronte ad una serie di difficoltà, prevalentemente legate alla conformazione degli spazi, che vanno fronteggiate in fase di allestimento.
Nel momento in cui ho deciso di organizzare il progetto espositivo all’interno di luoghi per così dire “difficili”, ero consapevole delle difficoltà a cui sarei andata incontro nel momento dell’allestimento. Nello stesso tempo, però, il dialogo tra ieri ed oggi e il fascino di queste sedi hanno consentito, nonostante le oggettive criticità allestitive, di ottenere dei buoni risultati senza doversi mai arrendere o adattare passivamente al luogo. Questo aspetto per me è stato fondamentale, perché non avrei mai permesso che la sede, seppure ingombrante per la sua imponenza e la sua storia, fosse un limite per la valorizzazione delle opere, né tantomeno che le opere dovessero semplicemente appoggiarsi negli spazi, come se fossero soprammobili, perché in questo modo sarebbero assolutamente venuti meno lo scambio e il dialogo alla pari tra le opere e gli spazi espositivi. Ammetto che non è per nulla facile, ma si può dare vita a dialoghi e riflessioni davvero inaspettati grazie a progetti allestitivi mirati e attraverso il coinvolgimento di artisti che non intendono il loro lavoro esclusivamente confinato all’interno di white cube ma che, al contrario, sono aperti a sperimentare e non temono il confronto con spazi “ingombranti”.
Giovani artisti, ma anche interpreti già affermati sul panorama artistico contemporaneo. Tra di loro, sia concettualmente che visivamente, sono molto diversi, però tutti ragionano sul tema di memoria. Una memoria storica e una memoria collettiva che diventano così anche specchio di identità artistiche molto differenti. Mi parli un po’ degli artisti che hai scelto e di come ciascuno di loro interpreta questo concetto attorno al quale ruota l’intero progetto?
La scelta degli artisti è avvenuta parallelamente alla definizione della storia da raccontare. La suddivisione in atti, come già accennavo, ha consentito di creare una vera e propria narrazione, sviluppata per “episodi” e dedicata alle differenti sfaccettature della memoria.
Ho quindi deciso di inserire nell’Atto I Andrea Cereda e Diego Soldà che, seppure in modalità completamente differenti, hanno ragionato sulle origini della memoria. Cereda, ricomponendo lamiere logore e consumate dal tempo, dimostra di plasmare un materiale che già per sua stessa essenza è testimone di memoria, diventando concettualmente mescolanza di vecchie memorie derivanti da storie ed esperienze distanti tra loro che danno vita a nuovi vissuti. Soldà, invece, partendo dal nulla, è lui stesso a creare nuove memorie attraverso la stratificazione del colore, che si sedimenta metaforicamente come le memorie stesse.
Con l’Atto II, invece, ho voluto rivolgere l’attenzione sul tempo, elemento imprescindibile che da sempre agisce sulla memoria e sulle nostre esistenze. In questo modo, il dialogo tra Roman Opalka e Nicolò Tomaini ha consentito di riflettere su come l’uomo attribuisca un diverso valore al tempo a seconda dell’epoca storica in cui vive. Il lavoro di Roman Opalka,
presente in mostra con tre delle sue fotografie facenti parte dell’opera Opalka 1965/1-∞, fornisce la dimostrazione tangibile del tempo che passa, che trasforma e che, tracciando linee e solchi sul viso, modifica l’aspetto esteriore, diventando restituzione visiva del cambiamento interiore e della continua metamorfosi ai quali la vita e le esperienze sottopongono l’uomo costantemente. Quello analizzato da Opalka è un tempo paziente e lento, un tempo di vita, che si fa artefice della maturazione del ricordo e della sua successiva ricomposizione in memoria. Ben diversa è la riflessione di Tomaini che, utilizzando le icone
tipiche del mondo della comunicazione digitale, attraverso la pittura e la scultura, presenta una serie di brillanti provocazioni sul rapidissimo consumo di immagini, informazioni e di relazioni e sulla superficialità con la quale scorriamo da un’informazione all’altra tramite i dispositivi di cui facciamo quotidianamente uso, portando a una totale assuefazione a essi e a una conseguente e incombente minaccia per la salvaguardia della memoria collettiva in un tempo sempre più frenetico e disattento.
Infine, con l’Atto III, si giunge all’epilogo della memoria, riflettendo su quel che resta di essa prima che venga definitivamente negata dall’oblio. Le fotografie di Massimiliano Gatti, infatti, focalizzano l’attenzione su alcuni simboli culturali depositari di storie e di memorie che nel tempo hanno acquisito lo straordinario potere di formare l’identità della società di cui sono emblema, e che proprio per questa ragione sono stati sottoposti alla loro totale eliminazione, poiché, proprio in quanto simboli identitari di un popolo, sono temuti. Si parla nella fattispecie dell’azione di Isis su sempre più numerosi monumenti millenari del Medio Oriente, e in particolar modo della devastazione messa in atto nella città siriana Palmira.
Gatti invita così a riflettere sul fatto che la memoria non sia una realtà aliena da noi, né vada percepita come legata ad un passato remoto, ma al contrario, come ad una entità i cui influssi agiscono ancora attivamente sul nostro presente.
Come riesce infine l’arte contemporanea a farsi testimonianza tangibile di un concetto così astratto e fuggevole come quello della memoria?
Questa è una delle domande che io stessa mi sono posta nel momento in cui ho ideato l’intero progetto, per poi accorgermi che in realtà non si tratta di un concetto né fuggevole né astratto. Siamo noi nel tempo – e prima di noi le generazioni che ci hanno preceduto – a causa di una presenza sempre più insistente della retorica su questo tema a cui lentamente siamo stati abituati, ad averlo fatto diventare tale, o meglio, ad averlo inteso sempre più spesso come tale, fino a convincerci del fatto che memoria sia sinonimo di qualcosa di fumoso e volatile. Riflettendo meglio, sulla base anche degli studi di sociologia su questo tema, ci si rende conto che la memoria è parte integrante di noi, del nostro vissuto ed emerge in qualsiasi momento della nostra vita, da come viviamo le esperienze, a come ci rapportiamo con gli altri, al valore che diamo ai simboli e in molte altre situazioni che affrontiamo quotidianamente. Ecco che allora, preso atto di tutti questi aspetti sulla memoria che talvolta dimentichiamo, l’arte contemporanea può farsi un’ottima interprete di questo tema che è molto più attuale di quello che pensiamo.
Inoltre sono convinta che l’arte contemporanea sia oggi uno dei pochi linguaggi che ci sono rimasti per farci riflettere e fornirci degli spunti nuovi e profondi sull’epoca che stiamo vivendo e sulle componenti umane che ci caratterizzano. Quindi perché non si dovrebbe servirsi dell’arte contemporanea per riflettere su un tema come la memoria, che dovremmo riscoprire nella sua essenza più autentica?
Atto III – Massimiliano Gatti
a cura di Serena Filippini e Matteo Galbiati
con il patrocinio di Comune di Pandino, Comune di Caldogno, Comune di Vermiglio, Hdemia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia
in collaborazione con Castel Negrino Arte, Aicurzio (MB); Galleria Melesi, Lecco
con il contributo di Associazione Culturale Artemisia, Italfond
con il supporto di Comune di Vermiglio, Pro Loco Caldogno
catalogo bilingue italiano-inglese Vanillaedizioni
22 giugno – 15 settembre 2019
Forte Strino
SS42 74, Vermiglio (TN)
Orari: tutti giorni sino all’8 settembre 10.00-12.30 e 14.00-18.30;
dal 17 luglio al 28 agosto tutti mercoledì sera 21.00-22.30;
dal 9 al 15 settembre 14.00-18.00